
L’adozione del Modello 231 come impegno contro lo sfruttamento del lavoro
18 Novembre 2020
La pandemia ha comportato l’aumento di alcuni settori del mercato che, sebbene già floridi, hanno visto incrementare di molto il loro business.
Tra questi sono certamente da annoverarsi gli ambiti delle consegne a domicilio di generi alimentari che utilizzano come forza lavoro quella dei riders o fattorini quale parte operativa delle principali società di delivery.
E’ storia recente quella delle proteste dei riders affinché gli venissero riconosciuti diritti come lavoratori, scoperchiando una vasta area di sfruttamento delle condizioni di vulnerabilità e di isolamento sociale.
La questione è stata portata al vaglio giudiziario e già vanta una pronuncia del Tribunale di Milano che ha disposto la misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D.lgs. 159/2011 nei confronti di una delle società operanti nel settore del delivery food.
Immediata è stata la reazione dei principali colossi del settore che hanno deciso di sottoscrivere due protocolli sperimentali di legalità contro il caporalato, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento dei lavoratori.
Nel percorso verso la legalità e virtuosità di tali imprese, le stesse si sono impegnate a dotarsi anche di un Modello 231 idoneo a prevenire il rischio della commissione dei reati previsti dal catalogo, a riprova di quanto la compliance aziendale rappresenti una tappa imprescindibile a garanzia della stessa continuità produttiva.
Il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori
Lo sfruttamento dell’altrui attività lavorativa, spesso, ma non solo, collegata a organizzazioni criminali, è stata cristallizzata dal legislatore in una fattispecie del codice penale solo nel 2011, all’art. 603-bis rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”.
La norma, posta a tutela dello stato di libertà dei lavoratori, presidia lo sviluppo della personalità del singolo attraverso il lavoro e rappresenta la presa di posizione del legislatore alla casistica giudiziaria che sempre più spesso aveva portato all’attenzione dei tribunali lo sfruttamento dei lavoratori in condizioni di bisogno e di necessità.
Vittime privilegiate di questa minorata condizione erano persone immigrate in cerca di lavoro e, in generale, tutti coloro che stavano subendo gli effetti della crisi economica che stava imperversando nel Paese.
La fattispecie, oggi, prevede due differenti ipotesi di reato: la prima si riferisce a chi recluta la forza lavoro – il c.d. caporale -; e la seconda a chi più propriamente lo utilizza, assumendo o impiegando la manodopera.
La prima condotta che viene presa in considerazione, pertanto, è quella del reclutatore che, con o senza una forma di organizzazione alle spalle, approfitta dello stato di bisogno dei lavoratori per destinare la manodopera presso soggetti terzi in condizione di sfruttamento.
Oltre che in capo a chi recluta, il reato si perfeziona anche in capo al datore di lavoro che utilizza la forza lavoro in condizioni di sfruttamento lesive della sicurezza sul lavoro, della disciplina lavoristica in senso stretto, sottoponendo il lavoratore a condizioni di lavoro degradanti o corrispondendo retribuzioni sensibilmente difformi dalla soglia fissata nei contratti collettivi.
Essenziale è che vi sia la situazione di necessità che – come la giurisprudenza in materia di usura ha chiarito – si identifica nell’effettiva mancanza di mezzi per rispondere ad esigenze primarie unita ad una particolare condizione psicologica che comporta, per il soggetto passivo, una compressione della propria libertà di autodeterminazione.
Gli indici di sfruttamento appena elencati fungono da orientamento probatorio, permettendo al giudice di orientarsi nelle sue determinazioni.
Le determinazioni del Tribunale di Milano e gli impegni delle società
Così delineata la fattispecie dello sfruttamento del lavoro, il Tribunale di Milano, col decreto 9/2020, non ha avuto dubbi nel riconoscere gli indici nel caso portato alla sua attenzione, disponendo, come si è detto, la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D.lgs. 159/2011.
Si è accertato, infatti, che i riders e fattorini venivano reclutati facendo leva sulla loro condizione di “vulnerabilità e di isolamento sociale”: questo permetteva di retribuirli con paghe irrisorie e in spregio di ogni standard lavoristico.
Illecita accumulazione di ricchezza da parte di chi sfrutta i lavoratori all’evidente fine di profitto, violando le più elementari norme poste a presidio della sicurezza sul lavoro e, prima ancora, dei diritti fondamentali della persona.
La reazione delle principali società di delivery si è mossa nel senso di siglare con i principali sindacati e l’associazione di categoria, Assodelivery, due protocolli sperimentali di legalità contro i reati su citati.
Nel contesto di questo accordo, assume una rilevanza centrale l’impegno delle società di sottoscrivere un Modello 231 tarato sulla prevenzione dei reati di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro.
L’inglobare una simile previsione all’interno dell’accordo di legalità rappresenta la prova evidente dell’acquisizione sempre più marcata dello stigma di virtuosità che la compliance 231 assume nelle logiche di un’attività di impresa che cresce in maniera sana.
E questo assume una rilevanza ancora più marcata nel peculiare momento storico che viviamo, in cui corsi e ricorsi storici ci stanno portando ad attraversare una crisi economica le cui proporzioni non possono immaginarsi al momento, sebbene appaiano già evidentemente percepibili.